Ore 10.
10 km di corsa, il marito al lavoro già da tre ore, la figlia gialla in viaggio di istruzione – un modo soft per cominciare il liceo, beata lei. Gli altri che si svegliano pigri, e pigramente fanno colazione.
Il lavoro che non ti dà tregua, mail e whatsappini che si accavallano per metterti alla prova, aspettando che mandi il testo delle prove d’ingresso all’ambasciata o un’altra cazzata del genere. Per un anno volevo solo insegnare fisica, leggere romanzi, stirare e andare al cinema il venerdì sera. Possibilmente sola.
Non ce la farò. Mettiamoci al lavoro.
Quest’anno, complice un trasferimento inaspettato andato a buon fine, buon per lui, ho di nuovo sette ore in quinta. Sono miei da quando erano piccoli, ma non c’è mai stato un gran feeling. Una classe di figli di papà un po’ ipocriti e spocchiosi, ma il Grande Capo ha deciso che non potevano restare orfani l’ultimo anno e non ho trovato ragioni serie per dire no. Ok, mi stanno antipatici. Non mi fido. Pazienza.
Ho anche la mia quarta, altre sette ore che faccio molto più volentieri. Se non ci crolla il muro addosso, visto che l’altro giorno è nata una crepa preoccupante assai. Preoccupante quasi come quella tra i banchi dei maschi e quelli delle femmine: è bastata un’estate a riaprire una frattura che ogni anno, con pazienza, bisogna riempire di nuovo. Forse ci vorrà un altro viaggio. Non impossibile, dato che sono stati bravi assai e per Natale dovremmo esserci liberati dell’incubo dell’alternanza scuola lavoro.
Mi restano i piccoli a cui pensare, per loro giochi e trucchi di magia.